Mulinél

Mulinél

Ventilabro. Utilizzato per separare i chicchi di segale dalla pula. Questo oggetto non rientrava nell'asse ereditario, se ne ereditava però il diritto d'uso.

Beni fuori dal comune

Il ventilabro è un oggetto che si può trovare con facilità nelle vecchie dimore alpine. La sua peculiarità non sta tanto nello strumento in sé, quanto nel suo valore sociale. Come accadeva per altri oggetti, non se ne ereditava la proprietà, ma il diritto d’uso. In virtù di antichi legami di parentela, diverse famiglie si trovavano a condividerne l’utilizzo, rinforzando così i loro legami sociali. Questi mesi di pandemia hanno rappresentato un’occasione unica per riflettere su noi stessi e sulla nostra società. Ne è emersa una consapevolezza fondamentale, spesso mancante in tempi di “normalità”: quella del valore della solidarietà e della socialità. In contrasto con la visione che fa di noi individui isolati che perseguono il proprio interesse egoistico, principalmente economico, si è manifestato il desiderio e la necessità di una socialità solidale basata sulla condivisione e su un’idea rinnovata di collettività. Nella salute, in particolare, si è riconosciuto un bene comune che travalica le divisioni di classe, genere ed etnia.


Reciprocità

I beni comuni, categoria entro cui possiamo raccogliere un insieme eterogeneo di oggetti, pratiche, istanze sociali a cui l’antropologia si interessa da tempo, hanno alcuni tratti comuni: innanzitutto prevedono l’esclusione dei beni dai circuiti socio-economici legati a logiche di mercato e al profitto; in secondo luogo, presuppongono una comunità che se ne prende cura e li tutela in quanto beni di fondamentale interesse collettivo. L’idea di bene comune è condivisa da diverse società, sebbene in ciascuna assuma forme peculiari e distintive. L’antropologia ci ha mostrato molti esempi di società basate su pratiche di reciprocità e condivisione, che assicurano l’accesso ai beni primari che garantiscono la sopravvivenza e che funzionano secondo una logica che non è quella dello scambio commerciale ma del dono, in cui l’obbligo sociale di dare, ricevere e contraccambiare, crea e rinsalda il legame sociale.


Una riflessione

Elogio dell'ozio
di Dario Nardini, dottore di Ricerca in Antropologia Culturale e Sociale, Università Milano Bicocca

“La sospensione liminale che la quarantena ci impone può prestare il fianco […] all’inasprimento dello “stato d’eccezione” e alla limitazione delle libertà personali, ma può anche offrire spazi di costruzione di un altro modo di pensare il mondo e le cose (quello che Turner definiva l’anti-struttura), mostrandoci i limiti di quella “ragione del mondo” neoliberista che fino a oggi ha orientato il nostro impegno e il nostro tempo, e motivandoci forse a un approccio meno produttivistico e imprenditoriale alla vita […]”.

Per molto ho riflettuto sull’opportunità di scrivere qualcosa in un momento come questo. Siamo ancora in piena emergenza, tanta gente ancora muore, tanta gente soffre, tanta gente si vede privata della possibilità di salutare i propri cari e di vivere il lutto. Sempre più persone si preoccupano e si rendono conto che i tempi che verranno saranno drammatici. Non solo perché sarà difficile tornare immediatamente, e come facevamo prima, a mangiare fuori, a scambiarci abbracci emozionanti, consolatori o corroboranti, ma soprattutto perché tante attività salteranno, e molti di noi da una vita dignitosa passeranno verosimilmente a fare la fame e vivere di espedienti. Dal mio punto di vista privilegiato, mi sembrava giusto rimanere in silenzio, in attesa di tornare a occuparmi delle mie ricerche e di temi su cui sono più sicuro di poter dire qualcosa (nella speranza, ottimistica, di poterci tornare).
Sono nato e cresciuto in un’area pedemontana sotto l’Appennino tosco-romagnolo, un’ora a sud da Bologna e mezz’ora a nord di Firenze. Il mio Mugello è una valle di provincia relativamente fortunata, che si è consolidata alla “giusta distanza” dai grandi contesti urbani e dalle logiche che li governano, non troppo lontano da Firenze per non poterci lavorare o passarci i sabati sera, non troppo vicino per doverne dipendere a livello economico, infrastrutturale e commerciale. I piccoli paesi racchiusi in quest’area (qualche migliaio di abitanti ciascuno) hanno fatto rete, trovando un loro equilibrio relativamente indipendente dalle congiunture economiche globali, tant’è che qui anche la crisi del 2008 è stata forse meno destabilizzante rispetto ad altre zone della provincia italiana.
Sono nato e cresciuto in un momento storico in cui dalla mezzadria ci eravamo abbondantemente emancipati (sull’alimentazione delle famiglie mezzadrili mugellane ha scritto belle pagine Carla Bianco, che ha fatto ricerca proprio a qualche chilometro da casa mia). Io e i miei compagni di classe eravamo figli di quella generazione in cui fare il ristoratore significava ancora vivere una vita agiata, e in cui i dipendenti pubblici riuscivano a comprarsi casa e a mettere qualche soldo da parte per i figli (anche per questo, probabilmente, la crisi qui si è sentita meno che altrove). Sono nato e cresciuto appena in tempo per scampare il dramma generazionale dell’eroina, che anche qui ha falcidiato tanti dei ragazzi nati nel decennio precedente. Sono nato e cresciuto in un contesto in cui affrontare la quarantena, oggi, non ha i risvolti drammatici che può avere per chi abita con un partner in un monolocale pagato col sangue nella prima periferia di Milano. Per la prima volta in vita mia, anzi, non subisco il rimpianto di non essermi trasferito in città. Sono nato e cresciuto in un contesto, come dicevo, che si trova alla “giusta distanza” anche per isolarsi con successo ed evitare la diffusione drammatica del virus che ha investito altre aree provinciali, più densamente popolate e più fittamente interconnesse. Anche per questo non sentivo di avere il diritto di parlare dell’emergenza in corso. Forse, però, posso dare una testimonianza di quello che succede da questa distanza, che è difficile capire se sia effettivamente quella “giusta”, ma che di sicuro è la distanza in cui si trovano, come me, molte persone che hanno condiviso la mia traiettoria di vita, tra cui quelli che sono cresciuti insieme a me, con cui quotidianamente condivido impressioni, timori, rabbie, previsioni, paure, consapevolezze. Proprio in questo senso, allora, ho pensato che anche quello che vedo dalla mia “finestra” potesse rappresentare uno spaccato significativo di quello che succede nel Paese, e ho voluto descriverlo brevemente qui con piglio etnografico.
Nelle telefonate, nelle videochiamate e nel costante flusso di messaggi che ci scambiamo quotidianamente su Whatsapp, nei gruppi o a livello individuale, l’impressione più chiara che ho avuto è quella di una bipolare schizofrenia tra una razionale, inevitabile, apocalittica preoccupazione per quello che succederà dopo e un viscerale, indicibile ma evidente sollievo nel sentirsi sollevati da alcune responsabilità. Nel gruppo che abbiamo per fissare regolarmente cene con proiezione di film, prevalentemente coreani, Luca [i nomi usati sono tutti fittizi, chiaramente], che lavora nella distribuzione di prodotti per i supermercati e che quindi non si può fermare, ci racconta della sua preoccupazione di contrarre il virus, esposto com’è a incontri frequenti con il personale e la clientela dei negozi che rifornisce. Maria, in un’altra chat di gruppo tra amici, è affranta perché si è appena messa in proprio, gestisce con una socia un’azienda di comunicazione e marketing, e vede saltare tutti i lavori che le avevano affidato e gli accordi che le avevano confermato nei mesi precedenti. Gianni ha un negozio di abbigliamento, e mi descrive un panorama tragico per l’intero settore. I venditori come lui hanno già comprato il campionario primavera- estate, molti lo hanno addirittura già pagato, o comunque devono pagarlo a breve, pur sapendo che a questo punto venderanno ben poco, o forse nulla, di quello che si trovano in magazzino. I grossi appuntamenti della moda, occasioni irrinunciabili per l’export del famoso Made-in-Italy, salteranno tutti, e i buyer internazionali non investiranno un centesimo senza avere toccato con mano quello che i produttori avevano da offrire. “A riapertura, sperando che sia possibile riaprire presto, andrà bene se su cinque dipendenti riesco a licenziarne solo una o due - mi dice preoccupato -, e meno male che noi avevamo qualche riserva, sennò si chiudeva!”. Nel mondo della ristorazione, peggio che mai. Antonio cerca di arrangiarsi con un delivery improvvisato come meglio poteva, più per continuare a tenersi occupato che per effettivo guadagno. Si chiede come si potrà tornare ad aprire, oltre che quando, visto che comunque si dovrà cercare di mantenere le distanze, e chi ci va al ristorante, se deve stare a due metri dai propri commensali? Roberto torna depresso e intrattabile ogni volta che va, assieme al padre con cui gestisce un bar, a parlare col commercialista su quello che li aspetta. Un disastro, li aspetta. Disastro che tutti speriamo non arrivi, ma che sarebbe fatale non solo per l’attività in sé, ma anche per i bilanci di una vita, quella del padre, spesa per metterla in piedi, le sveglie alle quattro del mattino, le tirate da quindici ore a lavoro, la pazienza nella gestione dei rapporti con una clientela tipica dei bar di provincia, che vi lascio immaginare. Renato lo ha appena aperto un bar, insieme ad altri soci, indebitandosi con grandi preoccupazioni – preoccupazioni che si sono trasformate in drammatiche consapevolezze, quando a una settimana dall’inaugurazione ha dovuto tirare giù i bandoni.
Eppure, dietro le angosciose prese di coscienza di quello che sarà una volta finita questa quarantena, non posso non notare anche un malcelato sollievo. Razionalmente, tutti sanno cosa comporterà questa “sospensione” della normalità e ne sono spaventati, ma difficilmente la loro preoccupazione riesce a toccare le corde emotive dello “stomaco”, e in qualche modo nessuno è completamente insoddisfatto. Qualcuno lo ammette più volentieri, e c’è addirittura chi la prende come una manna dal cielo, e la rivendica come irripetibile momento di libertà dell’età adulta, che speriamo duri più possibile: un ritorno alla spensieratezza dell’infanzia, con tanto di maratone notturne di “retrogaming”, coi videogiochi – e la nostalgia – degli anni ’80. Per altri il sollievo emerge più velatamente nei momenti in cui, con una strana euforia, si dimenticano delle previsioni dell’immediato futuro e mi girano i contatti di Telegram per scaricare tutti i quotidiani del giorno in pdf, mi mandano il link al Torrent di un film bellissimo che hanno appena visto, girano in qualche gruppo gli onnipresenti meme del papa in “plank” o lo screenshot dell’abbonamento gratuito a PornHub Premium per gli utenti italiani, mi raccontano di avere più tempo per i figli nati da poco, mandano i video degli allenamenti che fanno a casa chiedendo consigli o avviano una videochiamata mentre impastano con orgoglio la loro bella pagnotta lievitata per ventiquattr’ore, quasi pronta per essere infornata. Per tutti, più o meno consapevolmente, più o meno fieramente, questa condizione liminale (o liminoide) di sospensione della normalità (che ha già descritto Capello) comporta anche la sospensione di quel senso di responsabilità che, “biopoliticamente,” ci costituisce come soggetti. Era una condizione che a me capitava nei lunghi spostamenti in aereo, nel periodo in cui facevo ricerca in Australia, o quando regolarmente mi recavo ai convegni nel periodo pre-virus: il tempo passato in volo, in cui era difficile riuscire a concentrarsi sul lavoro, diventava un tempo necessario di ozio giustificato. Potevo finalmente permettermi di guardare i film che la compagnia aerea proponeva sui piccoli schermi dei comodi schienali, ascoltare musica, o leggere, senza sentirmi in colpa per non aver fatto qualcosa di produttivo, di formativo di utile per il mio curriculum o per esprimere il mio potenziale. Allo stesso modo, la pandemia ci ha dato l’occasione - è cinico dirlo, e dicendolo il senso di colpa torna a pungermi il fianco - di mettere finalmente il culo sul divano senza la sensazione di aver tradito se stessi. In un contesto che ci vuole efficaci e produttivi, in cui investire su noi stessi e sulle nostre capacità diventa non solo un imperativo morale e sociale, ma l’oggetto stesso dei nostri desideri individuali, ambizione ultima dei nostri progetti di realizzazione come persone (secondo la logica foucaultiana della soggettivazione, del “governo degli individui” e dell’“imprenditoria di se stessi”), la pandemia ci dà modo di tirare per un attimo il fiato. In maniera complementare rispetto ai molti teorici che agambenianamente hanno visto nello “stato d’eccezione” provocato dall’emergenza una possibilità per stringere la vite del controllo sociale, io sono convinto anche e soprattutto di un’altra cosa: per molti aspetti, centrali nell’analisi sociale e antropologica, l’esercizio “biopolitico”, radicato ed estremamente efficace di quel controllo di cui abbiamo testimonianza nella “normalità” delle nostre vite quotidiane è stato anche per un momento sospeso nella vita di molti di noi produttori-consumatori, che abbiamo smesso di pensare a come “investire” al meglio il nostro tempo e le nostre energie.
A me, per esempio, che come molti altri colleghi ai primi passi di una carriera da antropologi cerco di massimizzare le mie pubblicazioni e spendo tempo e denaro nella produzione di articoli, riflessioni e collaborazioni che – spero – mi permetteranno un giorno di poter vantare un curriculum meritevole, non capitava da quando ho messo il punto finale alla mia tesi di dottorato, ormai un anno fa, di sospendere con la leggerezza con cui lo faccio in queste settimane la mia attività almeno per due giorni a settimana, in quei weekend che finora erano invece tempo utile per concludere quell’abstract per il prossimo convegno, contattare il traduttore inglese per l’ultima revisione, sistemare il formato della bibliografia dell’ultimo articolo da spedire a quella rivista influente (“scusa, ma quanto ti danno per scrivere un articolo per cui t’è toccato leggere tutta quella roba?” Mi chiedeva l’amico imprenditore - anche lui oggi felicemente col culo sul divano -, leggendo i riferimenti che stavo includendo in un saggio. “Nulla, è un investimento”, rispondevo io, cercando di giustificare in questo modo tutto quell'impegno non retribuito ai suoi occhi calcolatori). Almeno nella sua fase liminale, insomma, questo “stato d’eccezione” mi sembra aver provvisoriamente liberato i nostri corpi dell’esigenza “biopolitica” di dover “investire”, in senso appunto imprenditoriale, il nostro tempo. Siamo (noi che, ripeto, ce lo possiamo in qualche misura permettere) finalmente legittimati a mollare un attimo la presa, perché d’altronde non c’è altro da fare. L’ozio diventa un’attività che si può prendere in considerazione, e anche quando ci dedichiamo alle nostre nuove attività quotidiane, fare il pane, cucinare con più attenzione, seguire con più sollecitudine la vita dei nostri figli, lo facciamo forse con meno premura rispetto alle conseguenze, ai ritorni o alle ricadute che avrà sui nostri bilanci economici, sociali e culturali. Anche dall’esigenza di vendersi con successo sul “mercato sociale” partecipando sistematicamente ad aperitivi e eventi mondani qualcuno, mi pare, si sente temporaneamente, e con sconcertante e inaspettato conforto, sollevato.
Esplicitare e descrivere questa soddisfazione e questo senso provvisorio di liberazione che traspare dagli scambi quotidiani che ho con gli amici più stretti mi sembrava importante per rendere evidenti anche le logiche che ci impongono invece, in tempi “normali”, di non mollare mai la presa. Per prendere le distanze, in certa misura, da questo meccanismo di responsabilizzazione individuale (che pure ritorna insidioso ad alimentare le logiche dell’auto-confinamento) non solo nello spazio liminale della quarantena, ma anche nella “fase 2”, quando dovremo tutti ricostruire le nostre vite, e ci chiederemo forse chi ce lo fa fare di darci tutto quel da fare per investire su noi stessi, quando un mese di sospensione di ogni attività ha provocato, indipendentemente dalla nostra responsabilità, uno (speriamo parziale) fallimento ma non per questo ci ha resi persone peggiori, più “ignoranti”, o ottemperanti pecoroni.
In fondo, la sospensione liminale che la quarantena ci impone può prestare il fianco, come suggerisce Agamben – e con lui, ma in maniera forse meno radicale, alcuni antropologi – all’inasprimento dello “stato d’eccezione” e alla limitazione delle libertà personali, ma può anche offrire spazi di costruzione di un altro modo di pensare il mondo e le cose (quello che Turner definiva l’anti-struttura), mostrandoci i limiti di quella “ragione del mondo” neoliberista che fino a oggi ha orientato il nostro impegno e il nostro tempo, e motivandoci forse a un approccio meno produttivistico e imprenditoriale alla vita (se non nel settore economico e al livello macroscopico del sociale, perlomeno limitatamente ad alcune realtà circoscritte, e al livello delle coscienze).

San Piero a Sieve (FI), 17 aprile 2020